Vive a Roma, è originaria di Benevento e oggi è direttrice della Fondazione Giacomo Brodolini. Manuelita Mancini racconta un percorso fatto di studio, passione, responsabilità e scelte personali: voleva viaggiare, l’ha fatto all’interno dell’ente che è cresciuto con lei.
Manuelita, partiamo dalle origini: com’è nato il tuo percorso?
Ho frequentato il liceo scientifico in provincia di Benevento, poi mi sono trasferita in Toscana per studiare lettere e filosofia. Ho avuto la possibilità di fare l’Erasmus in Francia e poi, con una borsa di studio, sono stata a Londra. Dopo la laurea ho scelto un corso post-laurea alla SIOI, che forma chi desidera lavorare nelle organizzazioni internazionali. È lì che ho capito che il mio futuro sarebbe stato legato alle politiche del lavoro e all’inclusione sociale. Nel 2000 ho iniziato con uno stage nella Fondazione Giacomo Brodolini e non immaginavo che quel primo passo mi avrebbe portata, anni dopo, a diventarne direttrice.
Come sei arrivata alla Fondazione Giacomo Brodolini?
Con uno stage, non avrei mai immaginato di rimanere nello stesso posto così a lungo, ma il contesto è cresciuto assieme a me. Quando sono arrivata eravamo in 6/7, oggi siamo in 70, con sedi a Roma, Milano, Torino e Bruxelles e con un hub a San Francisco che fa da ponte tra la Silicon Valley e le imprese innovative europee. È un segnale di quanto siamo cresciuti e della nostra capacità di adattarci ai tempi. È un ambiente molto dinamico, che cresce e cambia di continuo. In realtà, anche se non ho mai cambiato “lavoro”, è come se avessi vissuto mille esperienze lavorative diverse.
Essere donna ha rappresentato più un ostacolo o un valore aggiunto?
Entrambe le cose. Sono stata la prima direttrice e poi ho portato anche la prima presidente donna: fino ad allora erano stati tutti uomini. Ricordo un episodio a Bari: una persona mi disse “So che è cambiato il direttore, chi è quello nuovo?”. Quando ho risposto “Sono io”, mi ha detto “Sì sì, intendevo quello vero”. Sono piccoli episodi che, sommati, raccontano quanto sia ancora difficile essere riconosciute. Al tempo stesso, credo che l’essere donna mi abbia dato la capacità di affrontare tutto con più dedizione e resistenza. Donne e uomini non partono mai dallo stesso punto, ma proprio per questo possiamo dimostrare di valere molto.
La prima Presidente ha introdotto anche un cambio di rotta nei contenuti della Fondazione: ce ne parli?
Sì, con la prima Presidente donna – un’economista femminista – abbiamo iniziato a lavorare su progetti dedicati alle questioni di genere. È stato un cambiamento importante: non solo nella governance, ma anche per i temi trattati, che hanno preso una direzione nuova, più attenta alle diversità. Abbiamo portato avanti progetti sulle questioni di genere che prima non erano al centro delle nostre ricerche. È stato un cambio di direzione importante. Ora parliamo di inclusione anche attraverso questo tema.
Quanto hai sacrificato per arrivare dove sei?
Tanto. Non ho figli né famiglia mia, e non so se sia stato solo per il lavoro o anche per la paura di non riuscire a gestire tutto. Sapevo che il mio percorso avrebbe comportato un carico enorme, e la mia priorità è sempre stata proteggere la mia organizzazione. La verità è che ognuno deve seguire ciò che lo accende: per me era la crescita professionale, vedere la Fondazione crescere insieme con me. È stata la mia fiamma.
C’è stato un momento in cui hai sentito il peso della responsabilità?
Sempre. Quando sei percepita come quella che “regge tutto”, inevitabilmente ti vengono affidati più compiti, più sfide. È bello, ma anche molto faticoso. Sta a te decidere fin dove puoi arrivare, imparando a mettere dei limiti.
Qual è la tua visione oggi, dopo tanti anni di direzione?
Non penso al futuro solo in termini personali, ma all’organizzazione. Vorrei che fosse solida e indipendente, non legata a una sola persona. Non voglio che chi verrà dopo di me trovi un’organizzazione centrata sulla figura del direttore, ma una realtà con una leadership diffusa, capace di camminare da sola. È più difficile costruire questo, ma è la cosa giusta.
Guardando indietro, cosa senti di aver imparato da questo percorso?
Portare avanti un’organizzazione non significa solo guidarla da soli: è più complesso, ma anche più prezioso, condividere la leadership e rendere tutti parte di un progetto comune. Questa è la lezione più importante che porto con me.
Dalla tua posizione quale aspetto, potendo indicarne solo uno, è più cambiato nella lotta di genere in questi 20 anni di esperienza diretta?
C’è più consapevolezza, più di 20 anni di raccomandazioni politiche europee agli Stati membri per la parità di genere hanno avuto un impatto anche culturale ma hanno generato anche una controreazione di chi pensa che questo abbia messo in crisi l’identità maschile del capofamiglia; tuttavia la verità è che la nostra economia per crescere ed essere competitiva ha bisogno del lavoro delle donne che rappresentano circa la metà della forza lavoro.
Manuelita ha sempre avuto le idee chiare e quando si guarda indietro perché le si chiede un bilancio ha la lucidità di chi ha fatto le proprie scelte con convinzione, consapevolezza e in pace con il proprio cuore. Vedere una realtà, soprattutto una con finalità sociali e inclusive, crescere con il proprio team è di stimolo. Manuelita è uno degli esempi che le donne di spessore chiamano altre donne di spessore: non tanto per fare “gruppo”, ma perché si percepisce che, quando un terreno è fertile, è possibile far fiorire nuovi progetti. E se a farlo è una donna che da 22 anni si dedica alla Fondazione crescendo con lei e vedendo i progressi c’è speranza per la società del futuro.




