Marta Sannito è una donna concreta e determinata, capace di tenere sotto controllo personalmente diversi aspetti contemporaneamente. È chiara e diretta, e se la guardi bene negli occhi capisci quando stai perdendo la sua attenzione: non perché sia annoiata, ma perché ti stai allontanando dal focus della conversazione. Se non fosse una donna diretta non riuscirebbe a fare tutto quello che fa.
Hai vissuto Milano prima come studentessa, poi come professionista e ora come imprenditrice. Ci racconti la tua storia?
Sono arrivata a Milano – ci racconta mentre accarezza il suo cane – per frequentare un master alla Bocconi e da lì è iniziato il mio primo percorso professionale, nel mondo della moda. Per anni sono stata dirigente, ho lavorato con grandi interpreti del settore, vivendo intensamente gli anni dei “fashion brand”, tra fiere, viaggi e trasferte continue. Dopo i quarant’anni ho sentito il bisogno di un cambiamento. Così ho lasciato quel mondo e mi sono avvicinata alla consulenza. Ho iniziato un doppio percorso: da una parte, come cofondatrice di Cultura Italiae, sono entrata nel mondo delle politiche culturali; dall’altra, ho iniziato a insegnare marketing applicato alla moda in due accademie. È stato un modo per restituire qualcosa, per continuare a trasmettere ciò che avevo imparato sul campo.
Poi è arrivato il padel. L’ho conosciuto quando ha iniziato a esplodere in Spagna e ho intuito subito il potenziale. A Milano ho creato un network con alcuni soci e ho avviato un progetto imprenditoriale in questo ambito.
Come è nata la tua passione per il padel e cosa ti ha spinto a trasformarla in un’attività imprenditoriale?
Ho cominciato semplicemente giocando. Il mio primo approccio al padel è raccontato anche nel libro “Quel fenomeno del padel” che ho scritto per la casa editrice Gribaudo. È stato un ritorno allo sport, che fa parte della mia storia: sono stata un’ex agonista nel mezzofondo e ho fatto parte della nazionale come “azzurrina”.
Il padel è arrivato in un momento in cui avevo voglia di mettermi in gioco di nuovo, anche sul piano fisico, ma con una visione diversa: quella imprenditoriale. Da qui è nata l’idea di fondare un network di centri sportivi: ho iniziato con diverse strutture a Milano, in autonomia; a Cremona, invece, gestisco un centro con la fiducia dei due soci, mio marito Antonio Cabrini e Cesare Prandelli.
Quali sono le sfide principali che hai affrontato nel creare e gestire un centro padel?
Le difficoltà sono state molte, soprattutto dal punto di vista manageriale. Ho trovato un ambiente ancora poco strutturato: nella gestione dello sport c’è spesso scarsa programmazione, mancano competenze manageriali vere.
Molti centri sono a conduzione familiare, e questo porta a una certa improvvisazione. Anche nella gestione del personale, dei contratti, dell’organizzazione, c’è tanto da costruire.
Ho deciso di mettermi in gioco anche su questo fronte: ho preso giovani che uscivano dalle scuole di moda e li ho portati nel mondo dello sport, offrendo loro formazione. Ho voluto creare un ponte tra mondi diversi, credendo nel potenziale umano e nella possibilità di far crescere le persone.
Che ruolo ha la tua esperienza personale nello sport nella gestione quotidiana del tuo centro?
Un ruolo enorme. Lo sport ti forma in profondità, ti lascia in eredità dei valori che diventano parte di te: il senso del sacrificio, la tenacia, la capacità di non mollare. Tutte cose che tornano utili anche nel lavoro, nell’impresa. Il mio passato da atleta è stato un allenamento alla vita: oggi lo ritrovo ogni giorno, nei momenti di difficoltà e nelle piccole soddisfazioni quotidiane.
Anche la capacità di pensare fuori dagli schemi: nel centro di Cremona, per esempio, ospitiamo anche l’Accademia degli Scacchi perché crediamo che allenare la mente sia importante quanto allenare il corpo, per questo abbiamo scelto questa disciplina e da giugno anche l’autodifesa, perché è importante sviluppare competenze cognitive, strategiche e relazionali.
Com’è l’equilibrio tra vita privata e impegno professionale in una famiglia dove lo sport è sempre presente?
È una questione di equilibrio, appunto. Antonio ed io abbiamo sempre gestito tutto con grande rispetto e indipendenza. Non ci siamo mai sovrapposti, abbiamo sempre trovato un modo per sostenerci, senza invadere i reciproci spazi. Non ho mai avvertito grandi difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia: ci siamo appoggiati molto a vicenda, con naturalezza.
C’è un consiglio o un insegnamento di Antonio che ti porti dietro nella tua esperienza lavorativa?
Forse la testardaggine, quella sana, che ti aiuta a tenere la rotta anche nei momenti complessi. Ma la verità è che condividiamo valori molto simili: educazione, rispetto, senso del dovere. Stare insieme, per noi, è sempre stato un piacere. Anche se ognuno ha fatto le sue scelte e i suoi percorsi, ci siamo sempre sostenuti.
Credi che l’essere donna abbia dato un valore aggiunto alla tua capacità di gestire le tue attività?
In tutta onestà, non credo che il mio essere donna abbia avuto un peso specifico, né in positivo né in negativo. Credo nel valore delle persone, nelle competenze, nell’impegno.

Sono arrivata a Milano – ci racconta mentre accarezza il suo cane – per frequentare un master alla Bocconi e da lì è iniziato il mio primo percorso professionale, nel mondo della moda. Per anni sono stata dirigente, ho lavorato con grandi interpreti del settore, vivendo intensamente gli anni dei “fashion brand”, tra fiere, viaggi e trasferte continue. Dopo i quarant’anni ho sentito il bisogno di un cambiamento. Così ho lasciato quel mondo e mi sono avvicinata alla consulenza. Ho iniziato un doppio percorso: da una parte, come cofondatrice di Cultura Italiae, sono entrata nel mondo delle politiche culturali; dall’altra, ho iniziato a insegnare marketing applicato alla moda in due accademie. È stato un modo per restituire qualcosa, per continuare a trasmettere ciò che avevo imparato sul campo.
Ho cominciato semplicemente giocando. Il mio primo approccio al padel è raccontato anche nel libro “Quel fenomeno del padel” che ho scritto per la casa editrice Gribaudo. È stato un ritorno allo sport, che fa parte della mia storia: sono stata un’ex agonista nel mezzofondo e ho fatto parte della nazionale come “azzurrina”.
Molti centri sono a conduzione familiare, e questo porta a una certa improvvisazione. Anche nella gestione del personale, dei contratti, dell’organizzazione, c’è tanto da costruire.
È una questione di equilibrio, appunto. Antonio ed io abbiamo sempre gestito tutto con grande rispetto e indipendenza. Non ci siamo mai sovrapposti, abbiamo sempre trovato un modo per sostenerci, senza invadere i reciproci spazi. Non ho mai avvertito grandi difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia: ci siamo appoggiati molto a vicenda, con naturalezza.
In tutta onestà, non credo che il mio essere donna abbia avuto un peso specifico, né in positivo né in negativo. Credo nel valore delle persone, nelle competenze, nell’impegno.