Nel celebrare il 4 Novembre, Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, e per commemorare i Caduti delle guerre, riportiamo la preziosa testimonianza del cormanese Biagio Amato, classe 1931. Biagio ha raccontato cosa significhi affrontare la quotidianità con un conflitto in corso e come la sua vita e quella dei suoi familiari siano state stravolte.
10 giugno 1940. Il duce Benito Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, annuncia l’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale. A Napoli vive Biagio, un bambino di appena 9 anni; la sua è una famiglia numerosa, come tante ve ne erano nell’Italia del tempo.
“Eravamo dieci figli. Abitavamo nella zona industriale di Napoli, nei pressi del porto. Mai potrò dimenticare quel giorno: all’alba del 13 giugno si udì un botto tremendo. È Sant’Antonio, pensavamo (Sant’Antonio da Padova fu patrono della città partenopea per quindici anni, dal 1799 al 1814), saranno i fuochi artificiali in suo onore!”. Erano invece i primi bombardamenti degli Alleati: “Il terrore era per gli aerei americani, che sganciavano a vista, mentre gli inglesi giravano a lungo, finché non trovavano l’obiettivo militare da colpire. Così imparammo a capire se si trattasse degli uni o degli altri. Andavamo a letto vestiti perché, quando suonavano le sirene, bisognava far presto e correvamo a rifugiarci in gallerie di tufo. Una volta, al largo, fecero saltare in aria una nave carica di munizioni; l’onda d’urto fu tale che, anche a trenta chilometri di distanza, i vetri andarono in frantumi”. La guerra entra nella sua fase più dura, le città italiane diventano sempre più vulnerabili e, con esse, le vite dei civili: “Andammo ad abitare in campagna per questioni di sicurezza e per mangiare qualcosa in più. Facevo le elementari, che dovetti lasciare: è stato quello uno dei miei più grandi rimpianti. La fame iniziava a farsi sentire: signori con i portafogli pieni facevano fatica a trovare patate, zucchero, caffè. Poi si diffuse il contrabbando e coloro i quali potevano spendere, mangiavano. Ci siamo salvati andando ad abitare in questa masseria, dove un amico di mio padre ci riservò un piccolo appartamento. Lì si erano raccolte diverse famiglie: in gran parte erano contadini, vi erano poi gli sfollati, come noi. In campagna, assieme agli altri bambini, andavamo a raccogliere la legna e le castagne nei boschi circostanti. Si cercava di sopravvivere. Eravamo più al sicuro, seppur si sentisse ugualmente il frastuono dei bombardamenti. Vicino alla masseria c’era una vallata isolata di tufo, dove all’alba venivano condotti i condannati a morte per essere fucilati. Nella masseria c’era un signore che si recava quotidianamente a Napoli per lavoro. Sapeva leggere e scrivere. Alla sera, tornava col giornale e, nella cantina della masseria, leggeva le notizie agli analfabeti, e io ci andavo con mio padre per ascoltarlo. Così ho vissuto gli anni della guerra. Da bambino, quasi non te ne rendi conto”.
Biagio è sopravvissuto alla guerra. Migliaia di bambini oggi convivono con le bombe, respirano la morte e l’odio di cui è capace l’essere umano, e muoiono. I conflitti in corso e le vite innocenti che si trascinano via devono allarmarci e ricordarci che la Pace, che i nostri militari salvaguardano nelle diverse missioni che li vedono impegnati negli scenari internazionali, è un diritto universale da tutelare, preservare, coltivare con ogni sforzo per porre fine alla catena di sangue delle guerre e impedire che altre sopraggiungano in futuro. Perché mai nessuna guerra è tanto lontana da non meritare considerazione.
